Ammiano Marcellino vive nel IV secolo d.C. e di questa sua epoca è una preziosa testimonianza, sia per i fatti a cui ha assistito personalmente, sia per le considerazioni che abbondano nei suoi scritti e che ci raccontano molto della mentalità degli uomini di quel tempo e di quella condizione.
Probabilmente era di Antiochia, una città importante dell’Oriente romano, centro di studi letterari e scientifici, che Ammiano seguì e di cui si trova traccia nella sua narrazione. Spesso, infatti, interrompe la narrazione dei fatti storici con digressioni di vario tipo, che vanno dall’osservazione di popolazioni barbare all’esposizione di fenomeni atmosferici ed astronomici, da argomenti di carattere militare, come le macchine da guerra, a quelli di carattere medico; a questi accenni di geografia, etnologia, scienza, si alternano brani eruditi tratti dai classici, soprattutto da Cicerone.
Dei trentuno libri che comprendevano Le storie (Rerum gestarum libri o con titolo completo, secondo alcuni studiosi, Rerum gestarum a fine Corneli Taciti libri) ci rimangono i libri XIV-XXXI, che narrano gli eventi dalla vittoria dell’imperatore Costanzo su Magnenzio nel 353 fino agli avvenimenti immediatamente successivi alla disastrosa sconfitta di Adrianopoli del 378, quella battaglia che segna il vero inizio della fine per l’impero romano d’Occidente.
Come si può notare, l’interesse di Ammiano Marcellino è decisamente spostato sulla contemporaneità, se dedica diciassette libri a solo ventiquattro anni (contro i dodici libri precedenti che descrivono ben 257 anni di storia da Nerva fino a Costanzo).
Nella sua trattazione ci sono elementi che ci inducono a ritenere Ammiano Marcellino « vicino agli ideali politici e religiosi dell’aristocrazia pagana di Roma», come è riportato nella prefazione di Antonio Selem.
Proprio questa sua posizione ci fa capire che l’imperatore da lui ammirato è Giuliano: «…dovette in lui formarsi l’idea che solo Giuliano fosse capace di far rinascere le antiche tradizioni romane di fronte alla decadenza dello spirito militare ed agli intrighi di corte».
Prima di trattare gli eventi relativi a Giuliano, Ammiano dedica i primi libri (di quelli pervenuti) al governo di Costanzo; dopo l’ampia trattazione dell’impero di Giuliano, si occupa di Gioviano, Valentiniano, Graziano e Valente. A parte Giuliano, a cui per altro non risparmia critiche per la sua disastrosa campagna contro i Persiani, non mostra grande considerazione per questi imperatori, di cui svela il carattere spesso crudele, la propensione alle trame, l’avidità, l’incapacità di riconoscere le persone degne di fiducia e la conseguente promozione, invece, di gente corrotta e senza scrupoli. Gli esempi di questi comportamenti poco augustei sono riportati con crudezza per suscitare lo sdegno di chi legge.
Nonostante gli sforzi di Ammiano Marcellino per riportare obiettivamente gli avvenimenti, opera in lui quello spirito ‘senatorio’ che tradizionalmente ha registrato durante tutto l’impero l’ostilità del Senato romano contro gli Augusti che non mostravano un adeguato rispetto verso questo ordine. I toni, quando mette in luce la corruzione di Roma, sono sarcastici, cercano l’effetto con esagerazioni che sembrano poco credibili. Indubbiamente la narrazione appassiona, ci trascina, ma viene il dubbio che sia a volte sopra le righe. Ammiano non è uno storico ottimista, tutt’altro: certe vicende tenebrose che portano alla rovina persone innocenti vengono narrate con accenti dolorosi, con la convinzione dell’ineluttabilità del male.
Per quanto riguarda lo stile riporto alcune annotazioni del curatore (avendo io letto l’opera quasi tutta in traduzione, andando al testo latino solo sporadicamente):
«L’idea di Ammiano imitatore dello stile di Tacito è stata confutata dal Wölfflin […] il Michael studiò l’influsso esercitato su di lui da Cicerone, e lo Hertz quello di Sallustio […] Ammiano è un novator verborum e nello stesso tempo fur priscorum verborum . Notevole è l’elenco dei termini nuovi da lui coniati […]. Accanto però a questa sua tendenza innovatrice è continuo in lui il desiderio di rifarsi ad autori antichi, alla prassi delle scuole di retorica ed al culto dell’antichità proprio della rinascita pagana…»
Il Selem mette in luce il pathos e la retorica del suo narrare, l’uso di lunghe disquisizioni moraleggianti con riferimento a Cicerone o a qualche oratore greco, lo sporadico ricorso al dialogo (a differenza di molti storici antichi). Quest’ultimo aspetto è interessante perché ci mostra un Ammiano in piena consonanza con i suoi tempi, quando l’oratoria pubblica era solo quella degli imperatori di fronte all’esercito.
Nell’opera di questo storico, che per quanto avesse studiato molto il latino non sempre riusciva ad esprimersi correttamente, vi sono molti grecismi, come l’abuso di costruzioni participiali e l’uso di un periodare e di un ordine delle parole nella frase poco consoni al latino.
Continua il curatore: «A Tacito Ammiano si avvicina per due caratteristiche, il poeticus color e la variatio. L’uso di termini e costruzioni poetiche è proprio della letteratura latina quanto più ci si allontana dall’età chiamata aurea. Tacito ne fa uso notevole ma il modello che Ammiano segue è Apuleio…»
Si può concludere che il suo stile è artificioso, ma non privo di forza, con note di drammaticità, a volte con tinte orride soprattutto quando si parla di battaglie o assedi; i toni patetici accompagnano la descrizione delle conseguenze delle azioni militari, i toni sarcastici sono riservati soprattutto alle massime autorità dell’impero.
Qual era il pensiero di Ammiano Marcellino? Come l’aristocrazia pagana di quell’epoca, era un neoplatonico che credeva in una divinità universale e apprezzava il politeismo dal punto di vista estetico o nostalgico. Per lui grande influenza nelle vicende umane avevano il caso e la Fortuna; credeva nell’astrologia e nella magia.
Concludendo: «È quindi il suo l’atteggiamento prudente di un pagano che, di fronte alla potenza politica che vieppiù assumeva il Cristianesimo, si sforza di apparire obiettivo, riconoscendo in astratto la perfezione della nuova religione, alla cui altezza non riteneva che i suoi seguaci fossero capaci di sollevarsi».