Jezabel

Jezabel

Jezabel, ovvero Gladys

Irène Némirovsky
Jezabel
Adelphi 2007

 

Jezabel, chi è veramente Jezabel?

La storia si apre con un processo: siamo a Parigi nel 1934 e sul banco degli imputati siede Gladys, ovvero Jezabel, come viene chiamata, alla fine della storia, da quello stesso giovane che lei ha ucciso. Jezabel, dunque, e chiamarla così ha un preciso significato che si capirà quando si conoscerà l’intera vicenda. Il riferimento è alla tragedia di Racine Athalie: infatti Jezabel è la madre di Athalie.

Il processo in realtà è la fine della narrazione che racconta la vita di Gladys e le vicende che l’hanno condotta a quel drammatico epilogo.

Questa figura femminile è il ritratto della madre della scrittrice: una donna egoista, affascinante e dedita esclusivamente al culto della propria bellezza.

«Lei compariva, e tutti, intorno a lei, si facevano… no, non silenziosi… ma attenti… In ogni sguardo leggeva la conferma della sua bellezza, del suo potere…»

Il racconto è crudele, si avvale di una scrittura affilata ed incalzante; sembra un pugnale che scava dentro il cuore dell’autrice: la  Némirovsky rivela così, in questo romanzo più che negli altri suoi scritti, l’angoscioso rapporto che aveva con la madre, un conflitto mai risolto, una carenza affettiva devastante, che le lascia solo la soddisfazione della vendetta letteraria.

È  terribile questa figura materna che nulla ha di materno e che mette al di sopra di tutto il proprio piacere: dominare gli uomini con il suo fascino, vedere ai suoi piedi corteggiatori adoranti di cui nulla le importa umanamente parlando.

Una donna incapace di amare e che ha avuto solo un fugace moto di tenerezza per la figlia, quando, essendo troppo piccola, non poteva offuscare la sua bellezza.

Ma anche la figlia, crescendo, diventa per lei una potenziale nemica in quanto, per il solo fatto di essere ormai una donna, è la testimone del trascorrere del tempo sulla pelle della madre.

Perché il tempo, inesorabile, passava e Gladys continuava a fuggire da un luogo all’altro per ingannarlo, senza riuscirvi:

«… se ne andava perché aveva visto un volto conosciuto in altri tempi, o una casa che risvegliava nel suo cuore troppi ricordi. Non era più la febbre leggera di una volta a spingerla da un posto all’altro, ma una fuga tragica davanti al passato»

Nell’opera della Némirovsky la relazione tra madre e figlia è centrale, ricorre anche nei romanzi in apparenza meno autobiografici e si colora sempre di un’amarezza senza rimedio.
La scrittrice sa scavare con sagacia nelle dinamiche di un rapporto conflittuale, dove  la vanità di una donna bella e l’ossessione della vecchiaia cancellano ogni possibilità di affetto e comprensione; ma la vanità inaridisce la vita, la svuota di significato e nulla resta alla fine; Gladys lo capisce troppo tardi:

«Per la prima volta dopo lunghi anni vedeva in un uomo qualcosa di diverso da un’avventura senza domani. Finalmente, un uomo le offriva di tenerla per sempre vicino a sé, di rassicurarla, difenderla da se stessa, e lei era mortalmente stanca di quella continua ricerca d’amore che era diventata la sua vita. Contare ansiosamente le vittorie, ogni giorno più precarie e difficili, vedere avvicinarsi ogni giorno il momento della vecchiaia e della solitudine… che incubo!»

Ma non a tutti è data la possibilità di una vita diversa; forse, per certe persone, esiste una tragica predestinazione: il loro destino è segnato dall’esistenza che hanno sempre condotto e non c’è possibilità di redenzione.

«Gli altri vedevano in lei solo una donna senza età, come tutte quelle che a Parigi hanno superato la quarantina. Sotto le luci, con il suo maquillage e i suoi gioielli, appariva bella di una bellezza fragile, inquieta e patetica, e all’alba, sulla soglia del locale, sembrava una vecchia in maschera, come le altre…»

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