Pomo pero

pomo pero

Pomo pero di Meneghello

Pomo pero – dime ‘l vero

dime la santa – verità

Quala zela? – Questa qua

 

Pomo pero, scritto nel 1974, undici anni dopo Libera nos a Malo, ne è la continuazione, per meglio dire i Paralipomeni, come dice il sottotitolo, cioè un completamento, un’aggiunta. «… non badate troppo alla parola pedantesca ‘paralipomeni’ … Vuol dire in sostanza ‘aggiunte’, letteralmente ‘cose tralasciate’; cioè omesse in passato e aggiunte ora». Sono ‘piccole storie’ che non hanno bisogno di una struttura esterna e che si inseriscono in un mondo già costruito.

Si divide in cinque parti: Primi e Postumi, le due principali, a cui si aggiungono gli elenchi di parole di Ur-Malo, il bellissimo Congedo che in pochi versi racchiude il significato profondo del libro, ed infine le Note le quali più che spiegare aggiungono.

Si parla ancora di Malo, dunque, si completa il quadro di quell’infanzia paesana così vivida. Ma qualcosa è cambiato: negli anni Sessanta i piccoli paesi conservavano ancora quella coralità potremmo dire dialettale, ma poi, negli anni Settanta, quel mondo viene disgregato dalla veloce trasformazione della società. Rimangono ancora frammenti vitali, ma sempre più precari nel fluire rapidissimo di questo passaggio da una realtà contadina verso la modernità. Fenomeno ancor più evidente nel Veneto.
In mezzo a questo flusso inarrestabile lo scrittore cerca di fermare in immagini fotografiche luoghi e persone, crea brevi pezzi teatrali che emergono da un caotico universo mutante. Con la consueta ironia che ci fa sorridere, a volte con sprazzi di comicità, ma questa volta con una punta di amarezza.
E crea elenchi di parole che si susseguono quasi per mettere al sicuro ciò che sta per dileguarsi. L’autore stesso dice che, quando una parola di dialetto scompare, scompare anche ciò che designa. Persone e luoghi si legano a parole che muoiono trascinando nel nulla tutto un mondo.
«… bisogna rassegnarsi al pensiero che la nostra lingua morirà presto, non c’è niente da fare. … morendo una lingua non muoiono certe alternative per dire le cose, ma muoiono certe cose». Così scrive Meneghello nelle Note, rammaricandosi per il fatto che non si parli più in dialetto ai bambini, ma al tempo stesso riconoscendo la ragione profonda ed inespressa di questo atteggiamento: «… farla finita in fretta con ogni richiamo al mondo della povertà, il mondo delle strettezze e delle tribolazioni, sentite come una sorta di “cose in dialetto”».
Un mondo da rimpiangere? L’autore ritiene perfettamente legittimo e non criticabile il desiderio di modernità e progresso, ma vuol documentare ciò che resta perché non vada perduto per sempre.

Il dialetto è lingua sotterranea da riportare in superficie, un substrato ancestrale che dà vita alla sua scrittura e da cui non si prescinde; e improvvisamente compare qualche spiazzante parola inglese, che Meneghello young executive trapianta nella materia dialettale per stabilire quella giusta distanza che permette di osservare senza sbavature sentimentali una materia in via di disfacimento. In Ur-Malo rimane solo il suono espresso da cantilene magiche, quasi amuleti portafortuna.

Allora non resta che il Congedo.

Il piano inferiore del mondo
ha un orlo di monti celesti
ed è colmo di paesi.

Nei broli annerisce l’uva
che nessuno vuole raccogliere,
ne prendono qualche graspo
gli operai dell’officina,
uno ne piluccano uno ne gettano,
giacciono i gioielli neri
sotto le viti tra l’erbacce.
Smurata è la mura dell’orto,
dilaniato il core,
mucchi di strame ingombrano
la corte, coppi caduti,
rotti rametti, pali fradici.
Intorno si vede sorgere
un mondo di cose nuove,
questa roba si spazza via,
trionfa un rigoglio
banale e potente.
Non è più una parodia,
è vero uso moderno,
i geometri se ne intendono
delle cose e dei loro nomi,
mio piccolo popolo
forzato da un ramo villano
di storia italiana,
è una foto ricordo – sorridi.

Va libretto mio, va a roccolare

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