Libera nos a Malo già nel titolo comunica una materia coinvolgente, come del resto avviene per quasi tutti i titoli dei suoi libri.
Libera nos amaluàmen. Così veniva detta la formula che chiude il Pater noster dall’amico Nino, che solo da grande ha capito che non si scrive così. Eppure, dice l’autore, nella deformazione c’è la vera essenza di questa preghiera; perché il luàme è il letame:
«Liberaci dal luame, dalle perigliose cadute nei luamàri, così frequenti per i tuoi figliuoli, e così spiacevoli; liberaci da ciò che il luàme significa, i negri spruzzi della morte, la bocca del leone, il profondo lago!
Liberaci dalla morte ingrata: del gatto nel sacco … del cane … del maiale … del topo di chiavica che stride tra il muro e il portone nel feroce trambusto dei rastrellatori.
(Liberaci dalla morte ingrata del topo nel feroce trambusto dei rastrellatori, come quella del partigiano braccato da fascisti e nazisti)
Libera Signore i tuoi figli da questo luàme, dalla sudicia porta dell’Inferno!»
Che tipo di libro è Libera nos a Malo? Un romanzo, un trattato linguistico, un saggio sociologico, uno scritto letterario? Certamente è un libro originale, soprattutto è vivo; le riflessioni acquistano concretezza e vivacità perché si incarnano in personaggi, diventano fatti vissuti. Il protagonista assoluto di quest’opera è il dialetto di Malo: è il nucleo da cui tutto è prodotto, a cominciare dai ricordi. Il dialetto è la lingua naturale, quella della mamma, dei compagni di giochi. È una rete che collega le persone, i luoghi, le cose, i pensieri, i sentimenti in un tutto vitale e profondo indistinguibile dal proprio essere; è il deposito della memoria collettiva. L’italiano si impara a scuola e rimane in superficie, perché è un altro mondo: «Ci sono due strati nella personalità di un uomo; sopra, le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto […] la parola in dialetto […] è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare in un’altra lingua».
In un’intervista fatta da Marco Paolini lo scrittore ci chiarisce perché ha voluto raccontare del dialetto di Malo: si è accorto che nessuno ne scrive, ma poiché le parole sono cose, se spariscono le parole anche le cose sono perdute per sempre. E perdere la memoria delle origini, vuol dire perdere se stessi. Nessuna nostalgia del tempo passato, non è l’atteggiamento che si confà allo scrittore, ma consapevolezza di un recupero essenziale per non sentirsi estraniato.
Capire davvero la realtà parte da qui:
«Perché questo paese mi pare certe volte più vero di ogni altra parte del mondo che conosco? E quale paese: quello di adesso, di cui ormai si riesce appena a seguire tutte le novità; o quell’altro che conoscevo bene, di quando si era bambini e ragazzi, e ciò che ne sopravvive nella gente che invecchia? O non piuttosto l’altro ancora, quello dei vecchi di allora già antico e favoloso? È difficile dire».
La parola del dialetto diventa strumento per capire, ma non solo; è anche poesia: basta pronunciarla perché si generi una corrente di immagini ricordi infantili suoni giochi in un fluire che sembra senza senso visto che non usa procedimenti logici.
Eppure la frammentarietà e l’incoerenza sono solo apparenti; c’è un controllo rigoroso che ricuce ogni elemento proponendoci quadri dell’infanzia, della prima formazione scolastica, della religiosità popolare, della famiglia, dell’adolescenza, delle case, dei personaggi e delle loro relazioni, degli avvenimenti così intimamente legati ai luoghi; e poi i cambiamenti colti da un Meneghello che torna ogni tanto al suo paese d’origine e ne constata le trasformazioni.
La contrapposizione di mondi è la cifra per misurare la realtà: il mondo degli adulti e quello dei bambini, la scuola dove si impara l’italiano e il mondo dei giochi in dialetto (esemplare la costatazione che esiste una diversità sostanziale tra l’uccellino delle poesie in italiano e l’oseléto che canta sul ramo vicino a casa), l’ufficialità borghese con le sue regole artificiose da una parte e la vita popolana gremita di parole del dialetto che sono piante animali cose profondamente vere e concrete. Mondi diversi. Così, se in un film memorabile (per gli spettatori del Cinema San Gaetano) come Il Gaucho si sente “Vai nel cuore della foresta e uciditi” è ben diverso dal dire ”cópete sètu? che significa non farti male”.
Lo sguardo è ironico, a volte può sembrare spietato, soprattutto quando misura le piccole miserie e la limitatezza di una vita quasi primitiva. Anche la morte viene in qualche modo “carnevalizzata”. Cattiveria o humor inglese? A me sembra che non manchi mai una partecipazione bonaria, anche nel descrivere situazioni feroci.
Anche se non è la sua caratteristica principale, è un libro assai divertente, arguto. Il comico nasce proprio per la sorpresa di fronte al passaggio repentino e inatteso da un sistema logico o linguistico ad un altro attraverso l’inserimento del dialetto in un contesto colto o viceversa, oppure per l’apparire di una parola inglese decisamente incongrua. Situazioni cercate per sdrammatizzare e smitizzare anche le cose serie, perché Meneghello è scrittore antiretorico, antieroico, che sa prendersi in giro.
Ma non è insensibile allo svanire di un mondo amato. Una sera, di quelle da “rimpatriata tra amici” affiora la malinconia. La frase finale di Libera nos a Malo è la strofa di una canzoncina che con parole quasi identiche cantavo anch’io: Volta la carta la ze finia. Raffinatissimo. E triste, come tutto ciò che finisce.