Piccoli maestri: come gli outlaws, banditi inglesi, poco violenti e molto gentili, che nei tempi andati depredavano con grazia le carrozze e i viaggiatori; dice Meneghello: «Non prendevamo neppure in considerazione l’idea di fucilare qualcuno sgarbatamente».
Anche per questo ”racconto con costrutto narrativo”, come lo definisce l’autore, ci soccorrono le note di commento con cui Meneghello accompagna le sue opere: «… ciò che mi premeva era di dare un resoconto veritiero dei casi miei e dei miei compagni negli anni dal ’43 al ’45: veritiero non all’ingrosso, ma strettamente e nei dettagli».
Lo studente Luigi Meneghello all’università di Padova aveva aderito al GUF, ma l’incontro con un professore sospeso dall’insegnamento perché antifascista, gli aveva aperto la via alla riflessione politica e alla scelta di aderire al Partito d’Azione e alla lotta partigiana. Era il professor Antonio Giuriolo, il “Capitano Toni”, una guida per questi giovani studenti che operarono soprattutto sull’Altipiano di Asiago.
Il racconto si apre con la fine della lotta partigiana, almeno per l’autore: « In questo modo finì la guerra per me, perché fu proprio in quel punto che la sentii finire. … entrai nella pace. La banda non c’era più, perché c’è la guerra per bande, ma la pace per bande no». Poi narra le vicende che hanno portato a quella conclusione, partendo dallo sbandamento del reparto in cui Meneghello era allievo ufficiale fino al costituirsi di quel gruppo di ragazzi riuniti attorno al Capitan Toni.
Il racconto ha il ritmo di un romanzo d’avventura i cui protagonisti, l’autore e i suoi compagni, cercano di imparare a fare la guerra partigiana. Questi ragazzi sono guardati e raccontati con ironia.
Qualcuno ha parlato di toni goliardici, ma siamo ben lontani da una visione scherzosa degli avvenimenti. Le riflessioni su ciò che sta accadendo sono profonde ed investono la coscienza dell’autore che ci fa capire quale metamorfosi avvenga in questi aspiranti partigiani che si costruiscono una coscienza civile attraverso la terribile esperienza della guerra con tutte le sue crudeltà.
Il tono è volutamente ”leggero”, antieroico, per sfuggire alla retorica che certamente cancella la caotica vitalità dei fatti veri e crudi. Le parole dell’autore nella nota alla fine del libro illuminano: «I piccoli maestri è stato scritto con un esplicito proposito civile e culturale: volevo esprimere un modo di vedere la Resistenza assai diverso da quello divulgato, e cioè in chiave anti-retorica e anti-eroica. … Mi proponevo però anche di registrare la posizione di un piccolo gruppo di partigiani vicentini, che eravamo poi io e i miei amici, come esempio di una merce di cui non c’è molta abbondanza nel nostro paese, il non-conformismo».
Antiretorica, anti eroismo, non conformismo: l’ironia ne è l’arma; soprattutto emerge quando si contrappongono due mondi, quello di loro studenti e quello degli altri partigiani popolani, ed ha una funzione euristica, come scrive Maria Corti nella prefazione, cioè scava per scoprire il nucleo dell’opera di Meneghello, qui come negli altri suoi scritti: il contrasto. Che si coniuga in vari modi: cultura letteraria e cultura popolare, italiano e dialetto, mondo degli adulti e infanzia-adolescenza, esperienza inglese e ritorno alle origini.
È un libro scorrevole e di facile lettura, ma non è nato facilmente. C’è voluto il distacco di venti anni per scriverlo e vari tentativi non portati a termine, tra cui uno in inglese – e il distacco è stato non solo temporale ma anche spaziale. Distacco utile per osservare se stesso da remoto in quella lontana esperienza che è l’età della Resistenza.
Distacco importante, come sottolinea lui stesso: «… anche questa materia, come quella della mia infanzia a Malo, aveva radici profonde; estrarle ed esporle alla luce è stato ugualmente lungo e difficile, ma più doloroso; i veleni non erano quelli di un bambino, ma di un giovane uomo, veleni più adulti; e le cose da esorcizzare più inquietanti». «Per anni ho continuato a tentare di dar forma a singoli pezzi di questa materia: sapevo che per formarla bisognava capirla, scrivere è una funzione del capire».
Oltre all’accusa di goliardia, si è detto che l’autore è uno snob per quei suoi inserti linguistici, in inglese, in latino, in dialetto (meno quest’ultimo rispetto ad altri testi) e non si è capita l’importanza di queste ”vie di fuga”, porte che mettono in comunicazione mondi diversi: è per questo che ogni suo testo ha un respiro largo, non si chiude mai in un ottuso provincialismo, si avverte un’aria internazionale, fuori dalla soffocante atmosfera della retorica italiana o da un’appassita rievocazione del paese in cui è nato e che, si avverte, ama appassionatamente, ma senza sbavature sentimentali. Nella sua verità più vera.