Stefano Benni
Cari mostri
Feltrinelli 2015
Paura. Narrazioni raffinate o sboccate, tragiche o ironiche, gentili o sfrontate, così diverse tra loro: che cosa ci stanno a fare racchiuse in un unico libro? Ci raccontano la paura.
Un viaggio dentro il buio terrificante dei nostri baratri interiori. Un viaggio dentro la nebbia come quello del protagonista di uno dei racconti, uno che si è perso e non trova più la sua casa: «Sì, forse la vita è questo. Si procede tra normalità e paura, e si aspetta ogni volta di tornare alla nostra dimora, di trovare un po’ di quiete, un rifugio. Magari salendo le scale di casa verremo presi dall’angoscia, avvertendo che il dolore ci ha seguito fino lì. Comunque sia, è un inferno che conosci. Ed è meglio che non vedere nulla, meglio della solitudine dei nostri passi».
Personaggi strani si aggirano per queste pagine; strani ma familiari, li conosciamo, siamo noi, visti nello specchio deformante delle nostre paure: siamo l’uomo annientato dai numeri (del cellullare, della carta di credito, della tessera sanitaria…), siamo le/gli adolescenti senza più capacità di sentimento, e il ricchissimo russo che vuole comprare tutto, e i bambini che irridono i genitori, e il direttore del Museo che schiaccia l’insigne egittologa innamorata del suo lavoro, e l’uomo di mondo che si vanta dei suoi successi, e… e… .
E la paura aumenta, diventa immensa.
Così deve essere, perché «La paura è una grande passione, se è vera deve essere smisurata e crescente. Di paura si deve morire. Il resto sono piccoli turbamenti, spaventi da salotto, schizzi di sangue da pulire con un fazzolettino. L’abisso non ha comodi gradini».
La paura si vede negli occhi di chi ha paura. Come nei quadri di Reynolds che ha saputo cogliere, nei ritratti esposti nella sua bettola, la grande, unica vera paura dell’uomo: la paura della morte. Tra questi ritratti ce n’è uno speciale che raffigura la dama nera, nei cui occhi non si legge l’orrore, ma la tranquilla indifferenza di chi si guarda allo specchio.
Il pittore completa la galleria delle sue opere con un feroce omaggio all’insuperabile maestro nel creare il terrore, allo scrittore pazzo e delirante, eppure rigorosamente logico – E.A.Poe. Gli fa un lugubre regalo e non è il suo ritratto: «Dunque non potrei dipingere il suo sguardo spaventato davanti alla morte. Lei l’ha fissata in viso mille volte, le ha parlato, l’ha corteggiata. Ma dipingere quello che GLI ALTRI hanno provato davanti alla morte da lei evocata, le sensazioni e i mostri e il ghigno e il sangue che lei ha inventato per loro, quello è opera terribile e grandiosa. Le piacerebbe vedere tutto questo?».
Reggerà, lo scrittore, la visione di tanta angoscia? Riuscirà a sopportare tutto ciò che ha immaginato? In questo racconto emblematico Benni ha introdotto una specie di contrapasso, quasi volesse alludere, riunendole in un unico brano, alle sue fonti di ispirazione (ma è solo il parere di chi scrive): l’Inferno dantesco e i racconti del terrore di Poe.
Quanto catartica è questa rappresentazione dei nostri terrori? Non lo so.
Certo è che «Con meravigliosa destrezza Stefano Benni scende negli anfratti del Male per mettere disordine e promettere il brivido più cupo e la risata liberatoria. E in entrambi i casi per accendere l’immaginazione intorno ai mostri che sono i nostri falsi amici, i nostri veleni, le nostre menzogne.»