Il gattopardo

Giuseppe Tomasi di Lampedusa
Il gattopardo
Feltrinelli 2011

Letto negli anni giovanili, in fretta, per dovere d’esame. Poi incautamente dimenticato. Ma forse, per apprezzarlo e sentirlo parte di sé bisogna invecchiare, così come invecchia Don Fabrizio, nel lento declino del suo mondo, amato sì, ma anche duramente analizzato nei suoi tratti peggiori, in quella meschinità che malamente si cela anche nelle migliori famiglie. E con la consapevolezza che il nuovo che avanza sarà senza dubbio volgare, di sicuro non più benevolo, non più favorevole alla povera gente (perché ai vecchi e decadenti nobili si sostituirà la classe degli arricchiti rapaci e truffaldini), ma inarrestabile e “storicamente” giusto.
Ci sono pagine indimenticabili, che riescono ancora a parlarci; così la descrizione di un popolo, quello siciliano, perennemente addormentato e indolente, sempre governato da stranieri (veri o sentiti come tali), pronto a adattarsi e a ricavare con furbizia la propria sopravvivenza, ci racconta di noi Italiani, oggi. Un popolo incapace di riscatto, semplicemente perché non crede di doversi riscattare: «…i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti…». E a chi da fuori viene “per insegnarci le buone creanze” c’è solo una risposta: «… non lo potranno fare, perché noi siamo dèi». Saranno accettati dei cambiamenti, è vero, ma senza che nulla muti; dice Tancredi allo zio: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.»
Disperante, e vero.
Don Fabrizio accarezza con affettuosa ironia, e senza illusioni, la fine di un mondo destinato a reiterare ogni suo errore, all’infinito. Solo la perfezione matematica può dare conforto con la certezza che i conti tornano sempre. (« … puro intelletto armato di un taccuino per calcoli; per calcoli difficilissimi ma che sarebbero tornati sempre»).
Memorabili le meditazioni sulla morte: «Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida».
Uno stile nitido, senza sbavature. Un linguaggio preciso. Una prosa preziosa, poetica e allo stesso tempo razionale, mai approssimativa.
Un capolavoro; ma non dico nulla di nuovo.
In una lettera (riportata nell’introduzione) datata 30 maggio 1957, lo scrittore che si era visto rifiutare da vari editori questo suo romanzo, del cui valore, per altro, era fermamente convinto, scrive: «Mi sembra che presenti un certo interesse perché mostra un nobile siciliano in un momento di crisi (che non è detto sia soltanto quella del 1860), come egli vi reagisca e come vada accentuandosi il decadimento della famiglia sino al quasi totale disfacimento; tutto questo però visto dal di dentro, con una certa compartecipazione dell’autore e senza nessun astio… La Sicilia è quella che è; del 1860, di prima e di sempre. Credo che il tutto non sia privo di una sua malinconica poeticità.»

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